Maria, tra divinità e umanità – La Recensione del nuovo film di Pablo Larraín su Maria Callas
Ha da poco fatto il suo debutto in sala Maria, l’ultimo film di Pablo Larraín, che completa, in qualche modo, la trilogia di biopic dedicata a icone quasi divine dell’immaginario popolare (Jackie, 2016 e Spencer, 2021). Tra queste, l’appellativo di “Divina” trova senza dubbio il suo significato più profondo proprio nella protagonista omonima del film… Leggi tutto »Maria, tra divinità e umanità – La Recensione del nuovo film di Pablo Larraín su Maria Callas The post Maria, tra divinità e umanità – La Recensione del nuovo film di Pablo Larraín su Maria Callas appeared first on Hall of Series.
Ha da poco fatto il suo debutto in sala Maria, l’ultimo film di Pablo Larraín, che completa, in qualche modo, la trilogia di biopic dedicata a icone quasi divine dell’immaginario popolare (Jackie, 2016 e Spencer, 2021). Tra queste, l’appellativo di “Divina” trova senza dubbio il suo significato più profondo proprio nella protagonista omonima del film di cui parleremo: Maria Callas.
È ancora troppo presto, per quanto mi riguarda, per provare a restituire un’esegesi degna del film solo dopo una visione. Maria è un film che va rivisto, che va analizzato a pezzi e poi nella sua interezza più volte prima di un giudizio, ma proverò a fare del mio meglio.
Il film, nel complesso, è riuscito, anche se in alcuni punti sembra smarrirsi, mancando di approfondire adeguatamente temi che meriterebbero maggiore esplorazione. Ci sono momenti in cui il racconto sembra scivolare in una rappresentazione eccessivamente semplificata o caricaturale. Nonostante uno dei suoi punti di forza sia una sottile ironia che riesce a rompere la tensione emotiva e a dare respiro allo spettatore, questa stessa ironia non è sempre gestita in modo equilibrato. Il risultato è che alcuni momenti, invece di arricchire la narrazione, finiscono per essere esasperati, assumendo un tono quasi grottesco, che sottrae autenticità e profondità al racconto complessivo.
Maria è una pellicola che si lascia guardare con piacere, offrendo due ore di cinema mai noiose, nonostante il rischio di monotonia sia spesso presente nei biopic. Questo è merito soprattutto di quell’ironia a cui si è appena accennato, fatta di battute argute e taglienti che danno ritmo al racconto, di una fotografia avvolgente e di una scenografia che, come da tradizione del regista, risulta densa e suggestiva: le romantiche strade di Parigi diventano il palcoscenico di momenti onirici e magici; gli interni sono spesso pieni, talvolta claustrofobici, ma sempre eleganti e raffinati; gli allestimenti sono emblematici, caratterizzati e visivamente accattivanti. Il tutto è arricchito da una storia che, nonostante una certa superficialità nel racconto, non risulta mai banale.
Il tema del divismo è particolarmente insidioso e facilmente può scivolare nella banalità. Le dive, per quanto cerchino di sottrarsi a questo ruolo, tendono a essere rappresentate con caratteristiche simili e prevedibili. Questo film, che narra gli ultimi giorni della “Divina”, di colei la cui voce – immateriale e intangibile – è stata la manifestazione di qualcosa di più grande, di qualcosa che attraversa l’umanità per elevarsi verso l’ignoto, riesce a trasmettere l’essenza di questa dualità: una voce che ha incarnato la trascendenza, ma che al tempo stesso è stata la sua più grande fonte di sofferenza.
È un tormento consapevole, quello dello spettatore e di Maria stessa, di non poter trovare risoluzione, ma è anche un processo che porta alla catarsi. Maria racconta l’ultima settimana di vita di Callas, narrando l’agonia di un corpo che non può più sostenere la sua principale fonte di vita: la voce, il canto. È una storia di rassegnazione e consapevolezza, ma la protagonista maschera quella lucida percezione, inammissibile per lei. Maria sa che è destinata a non poter più cantare, ed è proprio questo elemento che rende il finale del film così importante, emozionante e straziante.
In questo contesto, torna utile il concetto di catarsi dell’antica Grecia. Aristotele nella Poetica definisce la catarsi come l’effetto che una tragedia dovrebbe produrre negli spettatori, permettendo loro di purificare le emozioni di pietà e terrore. Questo concetto è estremamente presente in tutto il film di Larraín, e coincide, appunto, con la scena finale. La catarsi è un atto di purificazione emotiva, in cui la tragedia evoca sentimenti intensi di pietà e paura nei confronti delle sventure dei personaggi, portando gli spettatori a un’esperienza emotiva profonda. Alla fine della rappresentazione, questa scarica emotiva consente una sorta di liberazione o purificazione dalle emozioni negative.
Nel film, questo avviene con l’ultimo canto di Maria, prima della sua fine, che non a caso è proprio “Vissi d’arte”, aria della Tosca di Puccini. In questo momento di profonda riflessione e disperazione, Tosca si lamenta delle ingiustizie della vita. Nonostante abbia vissuto sempre per l’arte e per l’amore, senza mai fare del male a nessuno, si ritrova vittima di un ricatto, che la costringe a scegliere tra salvare il suo amato o la propria dignità. L’aria esprime il suo conflitto interiore, il senso di ingiustizia e il dolore per una sofferenza che non riesce a comprendere, chiedendosi perché Dio permetta una tale prova.
Maria, nel film, a questo punto della narrazione e della sua vita, pur non comprendendo le ragioni per cui il suo amore più grande, il suo dono, sia causa del suo malessere, riesce a riconciliarsi e a purificarsi con se stessa proprio attraverso quel canto che, tragicamente, è anche il suo ultimo, la sua fine. La sua sofferenza finale trova risoluzione nella morte, pur rimanendo fedele a se stessa. Se ne va facendo ciò che più amava, e finalmente, alla fine, per sé.
La catarsi ha anche una funzione educativa: attraverso di essa, gli spettatori non solo si liberano delle loro emozioni, ma acquisiscono anche una maggiore comprensione delle conseguenze delle azioni umane, delle debolezze e delle passioni, sviluppando una consapevolezza morale e intellettuale.
E, infatti, Larraín, grazie a una straordinaria interpretazione di Angelina Jolie, che non recitava a questi livelli da tempo, riesce a raccontare, ancora una volta una storia profondamente umana, toccando le corde più intime dello spettatore. Pur rappresentando un personaggio lontano dalla perfezione divina, ma estremamente imperfetto e complesso, riesce a delineare due linee narrative parallele: da una parte la diva, la Callas, e dall’altra Maria, la giovane che ha trovato nella voce e nel canto una via di fuga da una vita di sofferenza, ma che, paradossalmente, ha trovato anche la sua rovina nella stessa ancora di salvezza.
«A nessuno interessa la sua voce, proprio come a nessuno interessa il tuo corpo» dice Onassis durante la celebre esibizione di Happy Birthday Mr. President di Marilyn Monroe. In questa battuta è riassunta l’ambivalenza di quel dono: l’elemento che dona divismo alla Callas, ma che le sottrae umanità. Il suo più grande pregio, la sua maggiore soddisfazione, ma anche l’elemento che più di tutto la condanna a non essere altro che la sua voce, la impoverisce di tutto il resto. Maria è la sua voce, la sua voce è Maria, e tutto quello che c’è in mezzo? Tutto quello che c’è in mezzo è romanticamente (e romanticizzato) il film di Larraín.
Questa riflessione si concentra su come la figura di Maria Callas venga rappresentata come un mix di divinità e umanità, tra la perfezione quasi soprannaturale della sua arte e la realtà della sua sofferenza personale. Quando si dice che la Callas di Angelina Jolie è “divina, ma anche umana”, si sta facendo riferimento a una contraddizione apparente che rende il personaggio complesso e straordinariamente sfaccettato. Da un lato, Callas è vista come un’icona inarrivabile, una cantante che raggiunge vette artistiche che sembrano fuori dalla portata dell’essere umano. Dall’altro, però, essa è anche una persona vulnerabile, imperfetta, che vive le sue difficoltà e cerca di gestire il suo destino, purtroppo segnato dal dolore e dalla solitudine.
La Maria di Larraín è una donna che si rifugia nell’invenzione e nella costruzione di un’illusione, creando un mondo parallelo in cui riesce a mantenere il controllo totale sulla sua storia. Questo elemento sottolinea il suo disperato tentativo di gestire almeno una parte della sua vita, nonostante la sua condizione fisica e psicologica stia rapidamente deteriorandosi. In questo mondo illusorio, si sente ancora forte, al centro della sua narrazione, in grado di controllare gli eventi, anche se la realtà è ben diversa e la sua vita le sta sfuggendo di mano.
Lo stesso meccanismo si riflette nelle sue relazioni con i domestici, Ferruccio e Bruna, che rappresentano figure ambivalenti nella sua esistenza. Sono i suoi amici più fedeli, ma anche i suoi nemici. Rappresentano la sua famiglia, ma al contempo sono i suoi sottomessi, costretti ad assecondare le sue follie e a darle conforto, anche se la carezza che offrono è più simbolica che reale. Questi personaggi si trovano nel paradosso di doverla seguire, pur essendo, in un certo senso, intrappolati nella stessa dinamica di dipendenza emotiva e psichica che governa la sua vita.
Infine, l’uso del nome “Mandrax” per un personaggio o un elemento della trama acquista un significato simbolico potente. Il Mandrax è un farmaco sedativo-ipnotico noto per la sua capacità di creare dipendenza. Scegliere questo nome per una parte della narrazione non è casuale: l’ironia risiede nel fatto che un farmaco, che dovrebbe lenire il dolore, rappresenta in realtà una via di fuga che può condurre alla distruzione. Questo contrasto tra sollievo temporaneo e danno a lungo termine è un commento acuto sulla vita di Maria Callas, che, pur cercando di gestire la sua sofferenza, finisce per essere intrappolata in un ciclo di dipendenza emotiva e fisica.
L’apprezzamento per questa scelta narrativa risiede nell’intuizione e nel genio con cui si è riusciti a mescolare questi elementi simbolici e psicologici. È una scelta che va oltre la superficie, andando a toccare le profondità della condizione umana, della lotta interiore e dell’illusione di controllo che tanto spesso accompagna il dolore.
Infatti, è proprio a Mandrax, a questa figura inventata che Maria affida le sue memorie, la sua autobiografia, la sua storia. È a lui che decide di raccontarsi, entrando e uscendo da una condizione onirica e illusoria, immaginifica e surreale, ma – ancora una volta – catartica. La Maria donna, persona, è finalmente protagonista della sua storia nelle interviste immaginate, forse frutto di delirio, di quelle stesse pillole che portano il nome del suo intervistatore.
In conclusione, Maria di Pablo Larraín è un viaggio affascinante e tormentato nell’anima di una leggenda, un’opera che, seppur imperfetta, riesce a catturare l’essenza di Maria Callas. Il film offre uno sguardo intimo e doloroso su una figura che, sebbene circondata da una luce quasi divina, rivela un’umanità profonda e straziante. L’interpretazione di Angelina Jolie è magistrale, dando vita a una Callas complessa e sfaccettata, capace di commuovere e far riflettere.
Larraín, con il suo stile inconfondibile, ci regala un’opera che va oltre il semplice biopic, esplorando le contraddizioni e le sofferenze che definiscono l’esistenza umana. Maria è un film che invita a una riflessione profonda, lasciando nello spettatore un senso di catarsi e una maggiore comprensione delle complessità della vita e delle passioni che la animano. Una pellicola che merita di essere vista e rivista, per cogliere ogni sfumatura e immergersi completamente nel mondo affascinante e tormentato di Maria Callas.
The post Maria, tra divinità e umanità – La Recensione del nuovo film di Pablo Larraín su Maria Callas appeared first on Hall of Series.