Anche per perdersi serve un Maestro
Io non lo so cosa c’è dall’altra parte. Nessuno lo sa. Può darsi ci sia stato un tempo in cui l’abbiamo saputo, poi l’abbiamo dimenticato, e poi ancora quell’idea si è trasformata in religione, in scienza, o nell’immagine di una stanza porpora pavimentata a zigzag. Nella preservante cantilena della Donna del Radiatore, sempre pronta ad… Leggi tutto »Anche per perdersi serve un Maestro The post Anche per perdersi serve un Maestro appeared first on Hall of Series.
Io non lo so cosa c’è dall’altra parte. Nessuno lo sa. Può darsi ci sia stato un tempo in cui l’abbiamo saputo, poi l’abbiamo dimenticato, e poi ancora quell’idea si è trasformata in religione, in scienza, o nell’immagine di una stanza porpora pavimentata a zigzag. Nella preservante cantilena della Donna del Radiatore, sempre pronta ad assicurarci che “In heaven, everything is fine”. Nel silenzio di una sala cinematografica in penombra, dove le immagini danzano come ombre platoniche – o idee, come piacerebbe definirle al Maestro -, David Lynch ci ha insegnato che l’inizio e la fine di una storia (sia questa un film o la vita stessa) non hanno valore se ci sforziamo di dargli un senso.
Come i suoi enigmatici personaggi che vagano tra dimensioni parallele, il Maestro ha varcato quella soglia che separa il visibile dall’invisibile, lasciandoci con l’eco di una domanda che risuona nel vuoto: “Viviamo in un sogno? Siamo noi i sognatori?”. Così ha fatto l’arte di David Lynch che, come un fiume carsico, ha attraversato il sottosuolo della nostra coscienza collettiva per oltre mezzo secolo (finora), tralasciando la logica e cedendo il passo al surreale, trasformando il familiare in perturbante.
In quel “tradimento sensoriale” si nasconde parte dell’essenza di quell’“unheimlich“ – il perturbante, appunto – che nasce dagli oggetti e i ricordi da essi generati. Un busto in gesso, una poltrona, il pomello di un cassetto, lo sguardo di un gufo o una semplice tazza di caffè rappresentano una soggettività che, a suo modo, racchiude una sensazione familiare, qualcosa di più o meno innocuo in cui viene instillato il dubbio della fiducia.
L’inganno diventa un tradimento, il tradimento muta in mancanza di fiducia
Non esiste nulla di più angosciante della paranoia indistinta, motivata dal solo fatto che la lotta metafisica tra bene e male sia invisibile e si combatta in qualsiasi momento. Che si calpesti in qualsiasi frammento di terra e si respiri in qualsiasi particella (in tal senso, la sublimazione più emblematica è sempre stata rappresentata dalle possessioni di Bob in Twin Peaks). Non esiste nulla di più terrificante che non fidarsi di una tazza di caffè. Ecco, quindi, che gli oggetti più affabili si trasformano in portali verso l’inquietante, verso quel territorio dove il conosciuto e lo sconosciuto si fondono in un’unica, disturbante entità. Quella che David Lynch amava definire La Loggia Nera.
È per questo che le idee cinematografiche di David Lynch sembravano provenire da quel mondo delle forme pure che Platone collocava nell’iperuranio. Lynch stesso parlava delle sue intuizioni come di “pesci” che nuotano nelle profondità della coscienza, attendendo di essere pescati attraverso la meditazione. Proprio questa concezione quasi mistica della creatività ha sempre spiegato il suo – per alcuni arrogante, per altri opportunistico – rifiuto di fornire interpretazioni definitive delle sue opere. L’arte del Maestro, parlando dei suoi film così come dei suoi dipinti o della sua musica, non è mai stata un enigma da risolvere, bensì domande da contemplare. Un “chiedersi cosa ci sia dall’altra parte”, con l’obbligo di non darsi mai una risposta oggettiva, in un universo di soggettiva disperazione, dove le sensazioni esistono in una dimensione di purezza assoluta prima di materializzarsi in immagini concrete (e, dunque, d’un tratto inevitabilmente soggettive in quanto “vittime” delle esperienze terze).
Nel mondo di David Lynch tutto esiste già
Nell’universo lynchiano, le idee sono una monade inscindibile, utile a spiegare il tutto. Tante piccole parti di quel mondo iperuranico sopracitato, la sua gelosa “raccolta” di nozioni e significati. Un contenitore, o per meglio dire una stanza. Una Loggia. In quel mondo, negli ultimi anni, David Lynch vi si è cullato con passiva serenità. Si è nascosto “come gli elefanti quando sono felici”, e come il suo John Merrick in The Elephant Man ha sentito la necessità di riabbracciare la contemplazione del mistero in intimità. Un “ultimo atto” che è l’ennesima prova di quanto l’eredità di David Lynch non risiederà solo nelle opere che ha lasciato al mondo, ma nel modo in cui ha cambiato per sempre la nostra percezione del possibile nell’arte.
Lynch ha dimostrato che l’arte può essere simultaneamente popolare e profondamente personale, commerciale e sperimentale, accessibile e impenetrabile, creando un corpus di opere che continua a sfidare ogni tentativo di interpretazione definitiva e banalizzante. Ha creato un nuovo modo di fare e discutere il processo creativo, trasversale e interdisciplinare. E per questo non è assurdo affermare che oggi, con la morte dell’uomo ma non dell’artista, ci lascia il motivo per cui alcuni di noi fanno ciò che fanno, e lo fanno nel modo in cui lo fanno. Oggi ci lascia il motivo per cui esiste buona parte di ciò che ci emoziona. Ci lascia il motivo per cui Hall of Series scrive come scrive. Di certo, ci lascia il motivo per cui chi vi scrive è diventato com’è, e per cui sente di dover ringraziare.
Arrivederci, Maestro
E ora che David Lynch ha varcato quella soglia misteriosa, ritorniamo a quella sala cinematografica che è sacra sede dell’arte (“un film non andrebbe mai visto sullo schermo di una tv, o peggio di un pc”), dove le ombre continuano a danzare sul muro. Ma questa volta non siamo più semplici spettatori passivi, prigionieri della caverna platonica. Abbiamo avuto bisogno di un Maestro che ci insegnasse a perderci (e perdersi, come diceva lui, è meraviglioso), che ci insegnasse a vedere oltre le ombre. A riconoscere la natura illusoria della realtà apparente e, contemporaneamente, la profonda verità nascosta nelle illusioni stesse. Cosicché la domanda “Viviamo in un sogno?” non sia più fonte di angoscia, ma di meraviglia contemplativa.
Il sogno continua, Maestro, e noi continuiamo a sognare con te. Perché ci hai insegnato che è proprio nel territorio di confine tra sogno e realtà, tra familiare e perturbante, tra domanda e risposta, che risiede la vera magia del cinema e, forse, della vita stessa. Senza il bisogno di chiedersi cosa ci sia dall’altra parte.
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